venerdì 20 novembre 2009

L’eredità psicologica della guerra

Nel libro” I piccoli maestri ”di Luigi Meneghello si capisce che la guerra cambia la mentalità delle persone. È semplice durante un combattimento ,con la paura di morire, prendere il parabello, sparare e magari uccidere qualche avversario .Ma è difficile riflettere quando tutto è finito. Quando la guerra è finita all’inizio il soldato prova gioia per avere la fortuna di essere in vita,ma dopo un po’ la maggior parte dei soldati comincia a riflettere sulle loro azioni e ricordono quelle terribili immagini . Le statistiche dimostrano che una grande percentuale dei reduci di guerra ha problemi psicologici. Al continuo ricordo di spari,feriti e morti si reagisce in modo diverso. Ci sono reduci che riescono ad opprimere i ricordi e a far finta che tutto non sia accaduto. Questi cercano di vivere senza soffermarsi su quei momenti,ma ogni tanto i ricordi ritornano. Poi ci sono soldati tormentati dai ricordi così tanto da cadere in depressione e qualcuno riesce dopo una cura ad uscirci, ma altri no. Infine si riscontra un modo di reagire più drammatico,il suicidio . Quando le terribili immagini ti perseguitano qualcuno preferisce farla finita. Richard Gabriel certifica che durante la seconda guerra mondiale l’esercito americano ha subito una perdita di 504000 uomini a causa di collassi psichiatrici . Lo studio di combattenti dell'Esercito degli Stati Uniti sulle spiagge della Normandia ha rilevato che dopo 60 giorni di lotta continua il 98% dei soldati sopravvissuti erano diventati vittime psichiatriche e il restante 2% identificati come "aggressive personalità psicopatiche. I politici alla fine di una guerra si sono preoccupati di molti aspetti , tralasciando però i problemi psicologici che hanno causato la continua lotta ai sopravvissuti.
Marta Iselle

giovedì 19 novembre 2009

I RASTRELLAMENTI MILITARI


I rastrellamenti, durante la seconda guerra mondiale, erano vere e proprie operazioni di tipo militare accuratamente preparate e attuate con grande dispiegamento di uomini, mezzi e armi pesanti. L’obbiettivo principale di un rastrellamento erano i partigiani e il loro annientamento. In genere un rastrellamento doveva colpire in modo inaspettato e violento, cogliendo di sorpresa i partigiani. Per questo motivo si cercava di evitare ogni possibile scontro, lasciando che le formazioni diventassero consistenti nel numero e temerarie nelle azioni. Allo stesso tempo si cercava di ottenere tutte le informazioni possibili sulla posizione e sulla consistenza delle forze partigiane. I nazisti arrivavano con le autoblinde e iniziavano a sparare con le mitragliatrici; scesi, circondavano l’area dov’erano collocati i partigiani e in silenzio perlustravano casolari, siepi, contrade, percorrendo tutte le strade, fino ai sentieri che conducevano ai monti ed ai boschi, dove subito i giovani cercavano di scappare, sperando di salvarsi nascondendosi nei rifugi sotterranei. Le case, spesso, venivano incendiate.
Uno dei rastrellamenti più noti, è quello avvenuto sul monte Grappa fra il 20 e 28 settembre del 1944. Il massacro si è sviluppato ad opera delle truppe del Terzo Reich, ed è caratterizzato da una violenza spropositata. Quella che doveva essere un’operazione contro i partigiani acquistò dopo poche ore i tratti del massacro contro prigionieri e civili disarmati. Infatti le forze della Resistenza arroccate sul Grappa non avevano le armi adeguate e sufficienti e nemmeno le munizioni per fronteggiare un rastrellamento. Quindi, dopo un lesto tentativo di contrasto, dovettero abbandonare il terreno. In poco tempo la violenza nazista e fascista si sviluppò contro degli uomini, soprattutto donne e bambini.
Giulia Vigolo

sabato 14 novembre 2009

Le armi dei partigiani



I partigiani non erano parte dell'esercito, bensì erano migliaia d’italiani, uomini e donne, operai, contadini, studenti, professionisti e sacerdoti che ebbero il coraggio di prendere le armi ed iniziare la guerriglia contro i fascisti ed i tedeschi che ormai da vent'anni opprimevano il popolo italiano.
I partigiani, però, non avevano una grande disponibilità di armi, per questo motivo si erano organizzati in modo da prendere le armi ai soldati di ritorno dalla leva o prelevandole dai depositi dell’esercito italiano. Ma si trattava di fucili e di poche altre armi leggere che non potevano reggere il confronto con quelle dei nazisti.
C’era poi il problema delle munizioni. A questi problemi vennero in aiuto in seguito gli Alleati, con forniture di armi, munizioni, denaro ed ufficiali di collegamento ai partigiani del settentrione. Solo nel corso degli ultimi quattro mesi di guerra, gennaio-aprile 1945, la Special Force organizzò 865 lanci di materiale da guerra ai partigiani del nord. Due terzi di tali lanci riuscirono, cioè 551 per complessive 1200 tonnellate e precisamente 650 tonnellate di armi e munizioni, 300 tonnellate di esplosivo e 250 tonnellate di altri materiali.
Le armi più utilizzate erano i fucili. I fucili più utilizzati in Italia nella Seconda Guerra mondiale erano i Carcano: erano dei fucili ad otturatore-girevole-scorrevole con una baionetta al termine. Questi non erano dei fucili moderni al tempo della Seconda Guerra mondiale perché erano già stati superati tecnologicamente da altre invenzioni. I partigiani chiamavano questi fucili con il termine dialettale "parabello", probabilmente nome derivato dal tipo di munizioni che venivano usate cioè i proiettili da 9mm parabellum.
Un'altra tipologia di armi utilizzata era quella delle pistole.
La pistola più "popolare" in Italia era la Beretta M34 ed M35, una pistola semiautomatica (cioè che una volta caricato un colpo il resto si caricava automaticamente) che era in dotazione alle Forze Armate, ma venne usata anche dai partigiani durante la Resistenza.
In minoranza c'erano altre armi leggere come le mitragliatrici Breda Mod. 30 cioè una mitragliatrice da squadra che si utilizzava appoggiandosi al terreno con i rispettivi bracci di appoggio.
Diego Lombarda

giovedì 12 novembre 2009

Canti della resistenza

I canti della Resistenza antifascista sono parte integrante del repertorio nazionale italiano; essi si rifanno al ricordo della lotta partigiana e al concetto di libertà e indipendenza. Il loro stile riprende quello dei canti del Risorgimento e della Grande Guerra.
Sono riportato delle brevi descrizioni di due significativi e particolarmente noti canti della resistenza: Bella Ciao e quello che è considerato l'"inno ufficiale" della Resistenza: Fischia il vento. Bella Ciao ha un'ascendenza illustre: è infatti possibile notare la somiglianza di questo canto in con una canzone popolare, nota in tutta l'Italia settentrionale, di solito col nome de Il fior della Rosina.
La circolazione di Bella Ciao durante la Resistenza si limita alle zone di Montefiorino, nel Reggiano, dell’alto bolognese e a quelle delle Alpi Apuane e del reatino. Il testo, come detto in precedenza, ricorda quello de Il fiore della Rosina, che ha però una musica diversa. Questa invece è quasi uguale a quella della canzone Bevanda sonnifero.
Il canto più popolare tra i partigiani è Fischia il vento. Beppe Fenoglio, ne Il partigiano Johnny, la ricorda come "una vera e propria arma contro i fascisti". La melodia di questa canzone è la stessa di quella una canzone russa di M. Isakovsky e M.Blanter intitolata Katjuša. I versi invece sono stati composti (ma poi modificati nel corso del tempo) da Giacomo Sibilla e Felice Cascione, il primo, era un partigiano di Onelia, il quale aveva appreso quel canto nell’estate del 1942 mentre si trovava prigioniero in Unione Sovietica.
Dopo l’8 settembre Sibilla, assunto il nome di battaglia "Ivan", entra a far parte di una banda partigiana operante nella zona d’Imperia e in quel gruppo inizia a suonare con la chitarra la melodia russa sulla quale un altro partigiano, Felice Cascione, medico nella vita civile, compone i primi versi, successivamente rimaneggiati attraverso una serie di passaggi fra compagni partigiani. Fischia il vento si trasforma presto in un inno partigiano che si diffonde nelle zone del Nord Italia.

Stefano Niero

venerdì 6 novembre 2009

I gruppi partigiani nel Bellunese e Agordino


Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, con la conseguente caduta del regime fascista, si aprì in Italia un periodo difficile destinato a condizionarne il futuro. I nazisti entrarono in Italia occupandone il territorio e, dato che l’esercito regolare si era dissolto, toccò ai nuclei partigiani, formati principalmente da giovani e antifascisti, tentare la difesa e la liberazione del paese. Nell’Agordino, ma soprattutto nel Bellunese, si crearono gruppi ben organizzati tra i quali ricordiamo il primo nucleo partigiano “Luigi Boscarin”/“Tino Ferdiani” creato il 7 novembre 1943 su iniziativa del Comando Veneto e delle Brigate Garibaldi. Le Brigate Garibaldi, per l’appunto, furono molto attive nell’area di Belluno e Agordo con le varie Brigate “Leo de Biasi”, “Beduschi” e “Fratelli Fenti” operanti nella stessa Agordo le quali, tutte insieme, formarono il gruppo “Carlo Pisacane”. Altre importanti Brigate che esercitarono nel territorio Bellunese furono quelle “Calvi” e “Cacciatori delle Alpi” nel Cadore e quella nel Feltrino denominata “Antonio Gramsci”. Le Brigate e le organizzazioni partigiane fornirono un notevole contributo alla lotta contro i nazisti grazie anche al fatto che potevano arruolare persone colte e intellettuali che potevano dare un forte aiuto strategico in battaglia. Le Brigate Garibaldi costituirono l’80% circa di tutta la forza partigiana ed erano organizzate in tutt’Italia anche se in maggior parte nel Nord del paese. Queste agivano solitamente di soppiatto e silenziosamente tramite dei sabotaggi che indebolivano il nemico. Raramente i gruppi partigiani cercarono lo scontro diretto anche se questa tecnica non salvò le oltre 40 mila vittime partigiane della guerra. I partigiani arruolati nel Triveneto furono circa 34 mila e ne perirono, purtroppo, più di 7 mila; altri furono deportati nei Lager o imprigionati dai tedeschi.



Alessandro Bregalda

L'ABBIGLIAMENTO DEI PARTIGIANI




Il bersagliere ha cento penne
e l’alpino ne ha una sola
il partigiano ne ha nessuna
e sta sui monti a guerreggiar.
(Canto partigiano 1985)



I partigiani erano guerriglieri volontari di origine popolare riuniti nel comune intento di opporsi militarmente e politicamente al governo della Repubblica Sociale Italiana e degli occupanti nazisti.
Migliaia di giovani partirono senza sapere a cosa andavano incontro e furono gli unici a dover combattere durante una guerra senza una divisa unitaria; dovevano perciò provvedere personalmente al loro vestiario con ciò che disponevano, molto spesso non adeguato a ciò che dovevano realmente fare. Gli uomini erano vestiti con giacche militari, camicie rosse, semplici giacche da borghesi ornate da fazzoletti di vari colori usati per distinguersi (rosso, azzurro, verde) insieme a distintivi diversi per ogni gruppo: stella rossa per le brigate Garibaldi, scudetto metallico con fiaccola fra le lettere G e L per i Giellisti, coccarde tricolori per gli autonomi. Probabilmente ciò che contava maggiormente per questi giovani era l’orgoglio di distinguersi attraverso questi simboli che fornivano un’identità per loro importante. Portavano inoltre cinturoni che si potevano sostituire con semplici spaghi, cartucciere, berretti militari e cuffie di lana. A volte spiccavano anche elementi fantasiosi come giubboni di pelliccia, cappelli pirateschi e alla cow-boy che poco avevano a che fare con il tema della guerra.
Le scarpe, non adatte ai piedi dei loro utilizzatori, erano sempre rotte poiché il tanto camminare le consumava a poco a poco e per i partigiani era come essere scalzi.
Nelle formazioni di montagna resistevano solo i più decisi, i partigiani veramente convinti; durante queste campagne si assisteva ad una miglioria dell’equipaggiamento poiché coloro che abbandonavano la guerra dovevano lasciare ai compagni che restavano quanto di meglio possedevano: scarpe, maglioni, coperte....
I tanti colori che dipingevano l’esercito partigiano lo facevano assomigliare ad un arlecchino, privo di divisa ma altrettanto colorato.


Alessia Zaroccolo